La privacy non è un problema (e se lo è, non ha soluzione)




Parlare di privacy oggi è un po’ come parlare dello spread o del buco dell’ozono: è uno di quei concetti arcani, che sappiamo riguardarci da vicino, ma di cui, in realtà, non conosciamo granché. A differenza di spread e buco dell’ozono, però, sulla questione privacy le nostre azioni e le nostre responsabilità assumono un ruolo ben più significativo: siamo noi a gestirla. Ma è davvero così? Abbiamo un effettivo potere di controllo sui nostri dati personali? E cosa intendiamo, esattamente, quando lamentiamo che “loro” sanno anche quante volte andiamo in bagno? Chi è il nemico, lo stato? I cinesi? La CIA? Google? Noi stessi?

LEGGI ANCHE: Web e idiocrazia: il diritto di parola ha ancora un senso?

Violazione della privacy: di cosa abbiamo paura?

Proviamo a porci la domanda seriamente: di cosa abbiamo paura quando parliamo di violazione della privacy? Perché la risposta non è così ovvia. Certo, ognuno di noi teme che ci possano hackerare un profilo privato, la casella email, persino il conto bancario che gestiamo online. Abbiamo paura che qualcuno riesca a penetrare nel nostro computer o nel nostro cloud per fare mambassa delle nostre foto più scabrose, tipo quelle della nostra prima comunione, in cui appariamo drammaticamente in sovrappeso e con il viso rubicondo. Siamo preoccupati all’idea che tutto ciò che facciamo, diciamo e persino pensiamo possa essere contenuto in un archivio virtuale chissà dove e che omini oscuri possano disporne a loro piacimento. Ci sono andato vicino? Sono queste le paure che ci accomunano? Con ragionevole approssimazione, io suppongo di sì.

Che cos’è la privacy

Esattamente, che cos’è la privacy? Prima di riempirci la bocca con pensieri poco razionali, sappiamo almeno di cosa stiamo parlando? Giuridicamente, con il termine privacy indichiamo il diritto che ognuno di noi possiede alla riservatezza, alla garanzia che le nostre informazioni personali restino tali. Dunque, la violazione della privacy si ha quando i dati che ci riguardano non vengono gestiti in modo opportuno e legale da chi li possiede. Capite bene, dunque, che se qualcuno riesce a eludere i nostri sistemi di sicurezza e ad accedere ai nostri scheletri nell’armadio digitali, non si tratta più di una mera questione di violazione della privacy, ma siamo già sconfinati nella pirateria. Più che altro, la nostra privacy ha a che fare con il modo in cui siti web, agenzie, istituti e compagnia bella amministrano i nostri dati, da essi acquisiti previo nostro consenso. La domanda a questo punto diventa: che cosa ci aspettiamo dalla legge? Che cosa vogliamo proteggere? Preso atto che non stiamo parlando di truffe informatiche, ma di gestione trasparente di dati sensibili, il ragionamento si fa più spigoloso.

LEGGI ANCHE: Gestire la comunicazione disfunzionale: come non farsi la guerra (e stare tutti meglio)

Lo abbiamo voluto noi

Qualche settimana fa era esplosa la moda di FaceApp. Avete presente, vero? Quell’applicazione che permette di vedere come saremo da vecchi partendo dall’elaborazione di una nostra foto (fornita da noi). Sull’onda del successo, tanto improvviso quanto effimero, di quell’app, il discorso sulla privacy è tornato in auge: “Sciocchi, quello è solo un sistema per acquisire le vostre foto e i vostri dati!”, hanno tuonato in molti; “Ora ‘quelli’ vi hanno schedato nei loro database!”, ha vaticinato qualcun altro. Come se ci fosse bisogno di FaceApp… Quanti di noi dispongono di un account Facebook? E di un profilo Instagram? Quante vostre foto ci avete caricato nel corso dell’anno, giorno dopo giorno? Vi piace che il navigatore sappia dirvi in tempo reale quale strada sia la meno trafficata? Non trovate utile che Google sia sempre più bravo a capire il senso delle vostre ricerche e a fornirvi i risultati più calzanti? Oggi la vita è davvero più comoda, eh? Tutto ciò esiste perché esistiamo noi e perché noi non facciamo altro che elargire informazioni su informazioni su informazioni. Siamo connessi, siamo digitalizzati, siamo nell’era in cui spazio e tempo hanno cambiato la loro connotazione, siamo nell’epoca del tutto e subito. E ci piace che sia così. E se non ci piacesse sarebbe così ugualmente. Oggi, i dati sono una ricchezza, un patrimonio di cui anche noi ci nutriamo, seppure in maniera indiretta. Sul web, disponiamo di una gamma di possibilità, tutte accessibili gratuitamente, previo login. Ora il quesito che pongo è: abbiamo scelta? E rispondo: io non credo proprio, almeno che non vogliamo tornare a vivere sugli alberi.

Quindi nessun problema?

Non ho detto questo. Ovviamente il problema esiste, ma è legato a questioni che spesso non prendiamo in considerazione o non abbastanza. Attestato che pirateria informatica e violazione della privacy sono due cose differenti, e volendoci soffermare solo sulla seconda, dobbiamo sforzarci di comprendere a fondo ogni sua implicazione. Facebook, Google, Instagram, ecc. non hanno alcun diritto di cedere i nostri contatti e anche se ne avessero, non sarebbe comunque conveniente per il loro business, perché le informazioni personali sono la loro risorsa più preziosa. Quando ad esempio investiamo nella realizzazione di una campagna pubblicitaria a pagamento, noi non facciamo altro che attingere ai loro big data, ma non alle singole anagrafiche: ci vengono forniti elenchi di target specifici, gruppi, moltitudini, accomunati da talune caratteristiche (relative a interessi, età, collocazione geografica e tantissime altre). Vendendo le informazioni in proprio possesso, i colossi cederebbero anche parte della loro forza e, a lungo andare, svilirebbero in modo potenzialmente decisivo la propria offerta di mercato.

Lo scandalo di Cambridge Analytica

“E allora Cambridge Analytica?” Potrebbe obiettare qualcuno. Per chi non lo sapesse, qui faccio riferimento a uno scandalo che ha interessato la società di consulenza britannica Cambridge Analytica, la quale, a partire dal 2014, collaborò in decine di campagne elettorali in tutto il mondo (compresa quella referendaria sulla Brexit fornendo, forse, un apporto decisivo alla vittoria del ‘Sì’). Nel 2018, il The Observer e il The New York Times fecero scoppiare lo scandalo che, da lì a poco, avrebbe mandato a gambe all’aria la società, rivelando che questa aveva avuto accesso e utilizzato informazioni riservate relative a oltre 85 milioni di contatti Facebook, impiegandole in modo determinante per definire le strategie elettorali di Donald Trump, candidato repubblicano alla Casa Bianca. Appena resa pubblica la notizia, Facebook oscurò la pagina della società, ma ciò alimentò ulteriori dubbi sulle responsabilità del social network, sospettosamente lento nell’accorgersi delle malefatte di Cambridge Analytica. In effetti, l’azienda inglese, che si era oltretutto autodenunciata, aveva operato in modo illegale per circa due anni prima che Zuckerberg & Co. intervenissero, e per di più a scandalo già esploso. In pratica, Facebook non ha commesso alcun crimine relativo alla gestione dei dati dei suoi utenti, ma è mancata (ingenuamente?) nel controllo. Il che è ugualmente seccante, certo, e neppure la multa da 5 miliardi di dollari comminata a Facebook Inc. da parte della Federal Trade Commission (la più salata mai inferta nella storia a una società di Hi Tech) consola granché.

LEGGI ANCHE: Frasi fatte stupide: quando la parola precede il pensiero

Ciò che ci interessa è la segretezza, non la riservatezza

Il termine ‘Privacy’ potrebbe dunque essere improprio, se utilizzato per indicare tutta una serie di paure che le nostre informazioni personali possano essere impiegate in modo rischioso. I dati che ci riguardano sono già in possesso Facebook, della nostra compagnia di assicurazione, del nostro istituto di credito e del supermercato sotto casa con cui abbiamo stipulato una carta fedeltà. Di questo possiamo starne certi. Ciò che più ci interessa, qui, non è la riservatezza delle informazioni, ma la loro segretezza. Google sa dove siamo, cosa ci piace, cosa vorremmo acquistare e cosa probabilmente faremo il mese prossimo, lo sa perché siamo stati noi a dirglielo e a noi fa molto comodo che lo sappia. Ma quelle informazioni non possono essere oggetto di compravendita (devono restare segrete) e operatori esterni a Google – o chi per esso – non hanno (o non dovrebbero avere) la possibilità di scoprire le nostre abitudini, intenzioni e opinioni. Il punto però è che questa certezza non possiamo averla: Cambridge Analytica potrebbe non essere un caso isolato e neppure i giganti di internet sono invulnerabili. La soluzione potrebbe essere quella di rinunciare a fornire qualunque tipo di dato che ci riguardi, ma ciò implicherebbe non utilizzare i social network, il GPS, gli ecommerce, le tessere punti, i conti bancari, ecc., ma comunque non basterebbe. E allora, si torna al punto di partenza: le cose stanno così e basta, piaccia o non piaccia. In alternativa, possiamo rinunciare alla vita moderna e a tutti i suoi comfort, trasferirci sulla cima di una montagna e goderci a vita il panorama, lì dove banner pubblicitari e spam non sono in grado di raggiungerci.