Coronavirus e comunicazione equivoca: il senso civico e il bacchettonismo

Voglio mettermi subito al riparo da possibili fraintendimenti: in tema di quarantena da coronavirus, l’attivismo e la mobilitazione sociale dimostrati dai cittadini e degli utenti sono una manna dal cielo. L’entusiasmo e il convincimento con cui le persone comuni stanno interiorizzando e divulgando a propria volta le campagne #Iorestoacasa e Andràtuttobene rappresentano una fiamma di speranza, una modalità straordinariamente efficace di diffondere ottimismo e responsabilità civile. Ciò di cui voglio parlare qui, però, attiene ad un altro aspetto della comunicazione sul e per il coronavirus; mi riferisco, nello specifico, a tutta una serie di equivoci e di interpretazioni sbagliate ostentate dalla cittadinanza, specie se non quasi esclusivamente online: si percepisce un atteggiamento ostile, vagamente squadrista da parte degli utenti, che in questi giorni si manifesta soprattutto tramite piattaforma social. Sto parlando di comportamenti che dai social media nascono o traggono legittimazione, e da lì si propagano nel cyberspazio concretizzati in messaggi solo apparentemente indiscutibili, ma che, a mio parere, si fanno invece portavoce e fenomeni tangibili di condotte aggressive e sopra le righe.

quarantena da coronavirus
#Iorestoacasa
Andràtuttobene
comunicazione sul e per il coronavirus
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Notizia shock: gli italiani sono fin troppo zelanti

Mi rendo conto che mi sto inoltrando in un dibattito estremamente spinoso e di quanto il rischio di urtare la sensibilità del lettore sia altissimo. Cercherò dunque di essere più chiaro possibile, consapevole che ciò potrebbe non bastare a mettermi al riparo da eventuali malintesi. Comincio dicendo che gli italiani stanno facendo una splendida figura sulla gestione della pandemica diffusione del Covid-19. E sì perché le direttive dei decreti ministeriali sul coronavirus hanno trovato da parte della cittadinanza una adesione piena, più che piena: il nostro popolo sta applicando le direttive in maniera ancora più stringente di quanto venga realmente richiesto dai dpcm dell’8, del 9 e dell’11 marzo scorsi. Un’attitudine che è figlia di una piena presa di coscienza dei rischi e delle responsabilità comuni, ma anche di una comunicazione spesso ambigua, la cui enigmaticità è stata esacerbata anche da ulteriori approcci comunicativi poco chiari, da parte del Governo stesso e non solo.

comunicazione spesso ambigua

Zona rossa… o più che altro gialla…

Tutta l’Italia, dunque, è stata dichiarata “zona rossa”, giusto? Sì e no. Nel senso che, in realtà, e giustamente, uscire di casa non è tassativamente proibito. O meglio, le raccomandazioni sono di restare a casa; è possibile però effettuare spostamenti inerenti a motivi di lavoro, di salute e di necessità. Ok, il concetto di spostamento per motivi di lavoro è abbastanza chiaro. Già con “ragioni di salute” iniziano i primi dubbi: ovviamente posso uscire di casa per recarmi al pronto soccorso, ad esempio perché facendo giardinaggio sono caduto rompendomi un braccio. Ma posso spostarmi anche per accudire un parente malato e che necessita di cure che nessun altro, in loco, può fornire. Quando entriamo nella sfera degli spostamenti “per necessità”, però, la questione si fa decisamente più ambigua e interpretabile. Sono considerate necessarie le uscite volte ad acquistare beni primari, il che non comprende solo la spesa alimentare, ma anche sigarette, carburante, materiale elettrico, prodotti medicali e ortopedici, articoli per la cura degli animali, beni per l’igiene personale e domestica. Sono inoltre consentite le passeggiate con il proprio cane (purché l’animale sia in vita, chiarisce il decreto) e le attività sportive come il running e le biciclettate, a condizione che siano svolte in solitaria e mantenendo la distanza di un metro dalle altre persone. Come vediamo, dunque, sono diverse le eccezioni alla regola, tutte sensate e sancite dalla legge. In questo senso, l’encomiabile campagna #Iorestoacasa, bene accolta, rilanciata tramite piattaforme social e sostenuta fortemente anche dai personaggi dello spettacolo, è risultata in un certo modo fuorviante. Ciò però è comprensibile, non spetta certo a una iniziativa virale il compito di vigilare sulle condotte della cittadinanza; semmai l’iniziativa vuole essere un valido sostegno che rafforza il messaggio in sé: siate responsabili, abbiate coscienza, aiutare l’Italia ad aiutare se stessa. E allora dov’è il problema?

uscire di casa non è tassativamente proibito
#Iorestoacasa

I segugi da strada, la disapprovazione sociale

Ho l’impressione che sia stata avviata, da parte di qualcuno armato di un presunto maggiore senso etico degli altri, una vera e propria caccia all’untore, non tanto nel mondo fisico quanto, piuttosto, in quello virtuale, con Facebook e Instagram in particolare a fare da cassa di risonanza: c’è chi fotografa il vicino di casa intento a prendere il sole sulla panchina del parco condominiale e lo sputtana via social; chi  al grido di “è colpa vostra!11!!” accusa gli italiani nel loro complesso di essere i veri colpevoli di quanto sta accadendo nel Belpaese, quasi che la pandemia mondiale sia davvero figlia della scelleratezza di pochi disobbedienti, minimizzando la portata del fenomeno; chi, ancora, digrigna i denti nel constatare quanta gente si ostini a uscire di casa senza la mascherina. Abbiamo davvero bisogno di tutto questo? Abbiamo davvero bisogno di uno stato di polizia in cui il privato cittadino si sostituisce al gendarme? Insomma, parliamoci chiaro e al riparo da qualsivoglia affermazione che badi al politicamente corretto: siamo in uno stato di emergenza. Un’emergenza imprevedibile, inarginabile (e il propagarsi della pandemia a livello globale lo dimostra appieno). Un’emergenza che probabilmente nessuno avrebbe potuto impedire e che continua a dilagare a prescindere dalla zona rossa, a prescindere dall’avvedutezza delle persone. No, non è l’irresponsabilità civile la causa di tutto questo. Si badi bene: non sto negando l’importanza di una corretta interpretazione del decreto, non sto negando che utilizzare la mascherina sia dimostrazione di responsabilità civile (specie considerando che serve a non contagiare gli altri più che a tutelare se stessi). Sto dicendo un’altra cosa: stiamo davvero gestendo l’emergenza in modo solidale? Io credo di no. Io credo che questa gara di civiltà che assegna punti a chi smaschera il trasgressore rischia di tramutarsi  in un bagno di sangue. Di sangue italiano. Chissà, magari il vicino di casa  immortalato sulla panchina sotto casa stava solo riprendendo fiato dopo la sua consueta corsetta mattutina, un’attività che la legge autorizza, piaccia o non piaccia al libero cittadino con la smania del guardiano. Il problema sta lì? Nel cittadino che riprende fiato sulla panca? A cosa e quanto servono affermazioni del tipo: “È colpa vostra, incoscienti!”?

è colpa vostra!11!!
Abbiamo davvero bisogno di tutto questo?
stiamo davvero gestendo l’emergenza in modo solidale?
È colpa vostra, incoscienti!”?
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Permessi legali Vs. Permessi morali

Ecco allora che giungiamo al nocciolo della questione. Sembra che il decreto si sia scisso in due: da una parte, ciò che viene concesso dalla legge; dall’altra, ciò che occorre fare per non andare incontro alla riprovazione sociale. La mascherina non è imposta dal provvedimento, ma in qualche modo lo è dalla società, è una misura che serve per non andare incontro al pubblico ludibrio. Hai comprato il tuo pacchetto di sigarette? Allora fila a casa, non occorre che tu te ne accenda una sotto il portone del condominio. Davvero sono questi gli atteggiamenti che faranno la differenza? Davvero vogliamo vivere in uno stato di polizia privata per le prossime settimane? Consideriamo che dovremo passare in questo stato ancora venti giorni, se non molti, molti di più.

ciò che viene concesso dalla legge
ciò che occorre fare per non andare incontro alla riprovazione sociale

Un’Italia più unita? Secondo me no

E i Tg (lasciando perdere tutta una serie di aberrazioni comunicative di cui si stanno macchiando) parlano di una popolazione che sembra aver ritrovato l’unità nazionale, di una cittadinanza che si riscopre tale grazie a e per mezzo del dramma. L’impressione che ho io, però, è differente. Tutti noi, ed è umanamente comprensibile, stiamo perdendo lucidità. C’è quello che se la prende con le challenge e con i flash mob, magari perché vorrebbe essere lasciato in pace, magari perché organizzare incontri dai balconi è solo un altro modo per creare assembramenti (una parola sconosciuta al 70% degli italiani solo pochi giorni fa, tanto è vero che in molti continuano a scrivere “assemblamenti”). Ogni tre per due, qualcuno attacca qualcun altro su Facebook, che poi è sempre un qualcuno non meglio definito, un “voi maiestatico” che si propaga nell’etere e si assorbe nell’umore di chi legge. Non per essere cinico, ma l’impressione che ne ho io è quella di un’Italia meno litigiosa, certo, ma solo per pura difficoltà logistica: non bisticciamo perché siamo fisicamente impossibilitati a farlo. La vera unità nazionale dovrebbe essere altra cosa.

challenge
flash mob
official site
non bisticciamo perché siamo fisicamente impossibilitati a farlo
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#Andràtuttobene… e ci mancherebbe altro

A me non fa impazzire neppure la campagna #Andràtuttobene. La apprezzo molto, ma la condivido solo in parte. Gli arcobaleni, i disegni dei bambini, i cartelloni alle finestre e sui cancelli delle cittadine deserte sono struggenti, commoventi, straordinariamente toccanti, cementificano la speranza e il senso di appartenenza, ci accomunano nel dolore, nella paura e nella voglia di rinascere. Affermare che “andrà tutto bene non può che infondere forza, ed è esattamente a tale scopo che nasce l’iniziativa. Forse è una sensazione solo mia, ma a me è venuto spontaneo dare anche un’altra interpretazione al messaggio… Alla fine, in qualche maniera, ne usciremo per davvero. Il Mondo e l’Italia non saranno spazzati via, il coronavirus verrà battuto. Quindi sì, andrà tutto bene. E l’economia ripartirà, e gli esercizi commerciali riapriranno, e torneremo a ballare ai concerti e a urlare per un gol allo stadio, e ci abbracceremo, e gli abbracci cesseranno di essere demoni da fuggire. Alla fine, andrà tutto bene. Il solo bisogno di affermarlo, però, suggerisce l’idea che potrebbe non essere così, altrimenti perché avremmo bisogno di dirlo? Quasi, dire che andrà tutto bene innesta il sospetto che concretamente ci sia il rischio che ciò non accada, quasi solleva un problema che, chissà, diversamente nemmeno ci porremmo. Questa però è un’idea tutta mia e spero che vi trovi in disaccordo.

#Andràtuttobene
andrà tutto bene
Alla fine, andrà tutto bene